2014-02-06 09:15:00

Un fantasma si aggira per il nostro Paese. La sub-cultura del declino e della decadenza, figlia del nichilismo, sembra ormai pervadere le Istituzioni e le coscienze dei nostri concittadini – dichiara il Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara. Siamo di fronte al rifiuto sdegnoso per ogni autorità, ad un cinismo spinto al limite della sfrontatezza, allo scetticismo più radicale sulla possibilità di riformare e di modernizzare il sistema politico-istituzionale e quello produttivo, alla incapacità di immaginare il nostro stesso futuro. Così come per Bazarov, personaggio descritto da Ivan Turgenev in Padri e figli, capolavoro della letteratura russa dell’Ottocento, negli ultimi anni si è andata affermando l’idea che niente meriti di essere conservato e che tutto ciò che esiste è degno di perire.

L’Italia sta vivendo una crisi profonda e drammatica. Ma questo non è un Paese senza futuro.

L’evoluzione auspicabile in questa fase storica sarebbe quella di distinguere, come proponeva Nietzsche, il “nichilismo passivo” come fattore di decadenza, dal “nichilismo attivo” come principio di vitalità e di capacità di reazione alla decadenza stessa.

Allora, piuttosto che alle sirene del declino dovremmo prestare attenzione ai messaggi e ai protagonisti dell’Italia che funziona e che in questi anni di crisi hanno tenuto in piedi il Paese. L’Italia deve cercare di valorizzare gli asset dei quali dispone che sono unici e irripetibili. Cultura, manifattura, turismo e agricoltura sono i pilastri della nostra economia e, insieme, i fattori determinanti per una ricostruzione del ruolo dell’Italia nel mondo. Ma ciò propone l’urgenza di elaborare un progetto, indicare una prospettiva di cambiamento percorribile e ragionevole.

Con il nostro Rapporto — prosegue il Presidente dell’Eurispes — in questi anni non ci siamo mai allontanati dalla ricerca della verità descrivendo, quando necessario, anche ciò che ci sarebbe piaciuto tacere. Con lo stesso spirito, oggi, cerchiamo di interpretare la situazione italiana, evitando il facile richiamo del coro che canta la storia di un Paese ormai esangue e destinato ad una prossima e definitiva irrilevanza.

Conosciamo ormai a memoria i nostri mali che vengono da lontano, spesso sottovalutati, ai quali non è riuscita a trovare cura e rimedio la nostra classe dirigente generale, l’intera élite che ha tenuto in mano le redini della diligenza italiana.

La stessa élite che non si è neppure accorta di quanto, anche all’interno della crisi, di positivo e di creativo andava maturando in diversi settori dell’economia, della società civile, della cultura e addirittura della politica.

Stiamo dando un’ottima prova nei settori tradizionali del Made in Italy e del lusso: tessile-abbigliamento, calzature, arredamento e nautica. Siamo riusciti a creare nuove specializzazioni, come nella meccanica; nei prodotti a forte innovazione, nelle tecnologie per l’edilizia e nella chimica farmaceutica.

Nel 1999 eravamo al quinto posto nella Ue a 27 per saldo commerciale normalizzato nei manufatti. Oggi siamo al terzo posto. E proprio mentre la recessione e l’austerità impostaci dall’Europa facevano crollare la nostra domanda interna, e con essa Pil e occupazione, le imprese italiane hanno conseguito eccellenti risultati sui mercati internazionali.

Negli ultimi cinque anni il fatturato estero dell’industria italiana ha superato quello tedesco e francese. Negli ultimi due anni siamo stati tra i soli cinque paesi al mondo (con Cina, Germania, Giappone, Corea del Sud) a conseguire un saldo commerciale con l’estero superiore ai 100 miliardi di dollari. Il nostro comparto agricolo ha prodotto risultati fortemente positivi sia in termini di fatturato sia di occupazione. E quanto alto sia l’interesse per le nostre produzioni agroalimentari, è dimostrato dal fatto che l’Italian sounding, ovvero la falsificazione internazionale dei nostri prodotti, ha raggiunto la cifra di 60 miliardi di euro l’anno. L’Italia resta una tra le mète preferite del turismo internazionale. Per numero di pernottamenti di turisti stranieri, è seconda in Europa soltanto alla Spagna: con 54 milioni di notti è il primo Paese europeo per numero di presenze extra-Ue.

E tutto questo — conclude Fara — nonostante gli ostacoli, i ritardi, i mille impedimenti che lo Stato pone a chi decide di avviare una qualsiasi attività imprenditoriale, attraverso una pressione fiscale insopportabile, una burocrazia pervasiva e ossessionata dal regime del controllo e della concessione in luogo del diritto. Condividiamo i contenuti di un recentissimo documento stilato da Giuseppe Bianchi, Presidente dell’Isril, e sottoscritto da decine di rappresentanti di Istituzioni economiche, nel quale si afferma: «“è davvero ardito parlare di un Paese sul viale del tramonto. Non siamo una nazione di macerie e di cittadini rassegnati”».

Queste alcune delle indicazioni che emergono dal Rapporto Italia 2014. Il Rapporto, presentato alle Autorità e alla stampa, presso la Sala Conferenze della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, è stato costruito, come di consueto, attorno a 6 dicotomie, illustrate attraverso altrettanti saggi accompagnati da 60 schede fenomenologiche:

ITALIA/EUROPA • FINANZA/FINANZA • DESTRA/SINISTRA • ETICA/ESTETICA • RICCHEZZA/POVERTÀ • CONSERVAZIONE/CAMBIAMENTO

L’indagine ha toccato le tematiche e i fenomeni correlati a ciascuna delle sezioni che compongono il Rapporto i quali hanno stimolato il più recente dibattito e l’interesse dell’opinione pubblica. In particolare, hanno partecipato e contribuito a delineare il quadro degli orientamenti presenti nella compagine della nostra società 1.097 cittadini. La rilevazione è stata effettuata nel periodo tra il 13 dicembre 2013 e il 4 gennaio 2014.

Un pessimismo generalizzato sulla situazione economica. Il quadro di forte immobilismo e decadimento della condizione economica del nostro Paese produce un atteggiamento di forte pessimismo nella popolazione. L’88,1% degli italiani ritiene che la condizione economica dell’Italia negli ultimi 12 mesi sia totalmente o parzialmente peggiorata, in aumento di 8,1 punti percentuali rispetto all’analoga rilevazione del 2013. Continua, quindi, il trend negativo che caratterizza le opinioni degli italiani nell’arco degli ultimi dieci anni a esclusione di una momentanea battuta d’arresto nel 2007, anno dopo il quale il tasso dei pessimisti ricomincia ad aumentare e a mantenere nel tempo un trend di crescita. Aumenta invece, confermando l’andamento dal 2012 (3,9%), la quota di quanti ritengono che la situazione sia rimasta inalterata, passata dal 7,5% del 2013 all’8,5% del 2014..

Il futuro che ci aspetta. Rispetto alla precedente rilevazione, diminuiscono sia i fiduciosi rispetto ad una ripresa economica nei prossimi 12 mesi (passati dal 10,7% del 2013 all’8,2% del 2014) sia gli scettici (dal 52,8% al 45,6%). A crescere di 6,7 punti percentuali, passando dal 29,7% al 36,4%, è la quota di quanti considerano l’anno futuro sostanzialmente in linea con quello trascorso.

Alla domanda su come sia cambiata la propria situazione economica nell’ultimo anno, il 70,5%ha indicato un peggioramento (considerevole per il 34,8% e lieve per il 35,7%) che non si discosta dal trend rilevato lo scorso anno (73,5%). Inoltre, i giudizi di miglioramento della propria condizione economica sono passati dal 4,8% del 2013 al 2,8% del 2014. Aumenta, invece, la quota di quanti giudicano inalterata la propria condizione economica (19,9% nel 2013 contro il 24,2% attuale).

La difficile gestione della quotidianità. Il 30,8% non riesce ad arrivare a fine mese con le proprie entrate. Per questa domanda è stato registrato un tasso di non risposta decisamente alto (12%) che potrebbe indicare un disagio maggiore rispetto a quello rilevato. Tra quanti arrivano comunque alla fine mese non manca chi, il 51,8%, vi riesce soltanto utilizzando i propri risparmi. Tentare di risparmiare qualcosa risulta praticamente impossibile per tre italiani su quattro (74,7%). Sul versante delle difficoltà incontrate dagli intervistati nel pagamento delle rate del mutuo o nel saldo mensile dell’affitto per la casa, si registra nel primo caso un disagio che tocca il 29,1% e, nel secondo, il 26,8%. Il numero di quanti hanno preferito non indicare una risposta precisa tocca livelli elevati (rispettivamente il 21,5% e il 30%) tali da far ritenere più alta la quota di chi ha difficoltà a far fronte all’impegno mensile per saldare la rata del mutuo o l’affitto della propria casa. Le regioni più in difficoltà sono quelle del Mezzogiorno dove si manifesta la più alta concentrazione di chi non arriva a fine mese (41,9% per il Sud) o di essere costretti per questo scopo ad utilizzare i propri risparmi (il 64% per il Sud e il 58,9% per le Isole). Disoccupati o inoccupati, ovvero in cerca di nuova o prima occupazione si confermano le categorie maggiormente in difficoltà, incapaci di arrivare a fine mese rispettivamente nel 44% e nel 48% dei casi oppure costretti ad utilizzare i propri risparmi, nel 72% e nel 68% dei casi.

Rispetto alle prospettive future di risparmio, per il 65,2% è un’eventualità improbabile (36%) o impossibile (29,3%) nel prossimo anno.

Prestiti contratti per pagare debiti accumulati in precedenza. Accanto alla situazione di profonda crisi denunciata dalla larga parte dei cittadini, emerge un ulteriore indicatore del disagio: uno su quattro ha avuto necessità di ricorrere ad un prestito bancario nell’ultimo triennio. Le motivazioni più ricorrenti sono il saldo di debiti precedentemente accumulati (31,1%) e il mutuo per la casa (28,4%); mentre sono attorno al 16%, quelle determinate dal pagamento di spese per eventi particolari, come matrimoni, cresime, battesimi o dall’esigenza di saldare prestiti contratti con altre banche. Nell’11,2% dei casi si è trattato di un prestito tra i 50mila e i 100mila euro; la stessa percentuale ha riguardato i finanziamenti contratti per un importo di 100mila euro e oltre. Mentre prestiti minori, da 10.000 a 30.000 euro, sono stati contratti nel 20,9% dei casi. Il numero maggiore di prestiti erogati è invece quello che va da 1.000 a 10.000 euro (31%).

Perdita del potere d’acquisto: una realtà per 7 italiani su 10. Il 69,9% degli italiani ha constatato, nel corso dell’ultimo anno, una perdita del proprio potere di acquisto (24,1% “molto” e il 45,8% “abbastanza”). Il 25,1% ha riscontrato invece una riduzione minima della capacità di fare acquisti attraverso le proprie entrate. Solo il 4,5% non ha dovuto affatto affrontare questo problema.

Parsimonia e rinunce: come si modificano abitudini e stili di vita. Su che cosa in particolare risparmiano gli italiani? Se l’84,3% riduce le risorse destinate ai regali, l’81% taglia le spese per i pasti fuori casa e il 75,3% privilegia l’acquisto di prodotti di abbigliamento presso punti vendita più economici come grandi magazzini, mercatini, outlet. L’82,9% aspetta isaldi per acquistare. Per quanto riguarda l’acquisto di generi alimentari, si cambia marca di un prodotto se più conveniente (75,9%) o ci si rivolge ai discount (58%). Nei casi di recessione, si riducono naturalmente le spese superflue come quelle per il tempo libero(76,8%), i viaggi e le vacanze (72,3%) e l’estetista/parrucchiere (77,8%). In molti (71,6%) tagliano anche le spese per articoli tecnologici. Se gli italiani preferiscono ridurre il superfluo sono però restii a fare ricorso al mercato dell’usato (25,9%). Per risparmiare, il44% effettua acquisti online o utilizza i mezzi pubblici (40,9%) riducendo le spese dell’auto e in particolare quelle della benzina.

Resto a casa, mi conviene. Nel rivedere il proprio stile di vita, gli italiani dichiarano di aver limitato le uscite fuori casa (78,5%) e di andare più spesso a pranzo/cena dai propri genitori (41%). Abitudine diffusa anche quella di portarsi al lavoro il pranzo da casa(42,7%). E la casa sta tornando ad essere un luogo di ritrovo, dove ci si riunisce per una cena con gli amici, al posto della pizzeria o del ristorante (66,8%), o semplicemente per guardare un film in dvd/in streaming, piuttosto che andare al cinema (66,6%).

Rinuncio a tutto, ma non… Se costretti a ridurre le spese, non rinuncerebbero ai prodotti alimentari di qualità (37,2%), agli spostamenti in macchina e in moto (12,6%) e agli abiti di marca (10,1%).

Rateizzazioni, soprattutto per l’acquisto di beni durevoli. Le difficoltà del Paese sono evidenziate anche dalla diffusione dei pagamenti rateizzati nel tempo a cui, negli ultimi dodici mesi, ha fatto ricorso il 29% degli intervistati per effettuare acquisti. Gli italiani utilizzano il pagamento rateizzato per beni considerati “durevoli”: elettrodomestici (37%), automobili (36,4%), computer e telefonini (22,7%), arredamento (23,5%) e non per lussi o beni deperibili (alimentari, viaggi, vestiti). È preoccupante considerare che il 22,4% ricorre alla rateizzazione per far fronte anche alle cure mediche.

 “Compro-oro”: un fenomeno in stallo? Il fabbisogno di liquidità è testimoniato anche dal ricorso al “compro-oro” (18,7%). La rilevazione dello scorso anno faceva registrare un’impennata del ricorso alla vendita di beni preziosi presso questi particolari negozi apparsi come funghi, nel giro di pochi anni, sia nelle città sia nei piccoli paesi di provincia. Il numero di quanti dichiaravano di essersi rivolti ad un “compro-oro” passava quindi dall’8,5% del 2012 al 28,1% del 2013.  Quest’anno il dato subisce un calo di quasi 10 punti percentuali, variazione che può essere interpretata come un fenomeno legato all’esaurimento progressivo dei beni preziosi in possesso degli italiani. Il 46,3% di chi ha fatto ricorso ai “compro-oro” è motivato dalla necessità di sopperire alle esigenze quotidiane, mentre il 30,4% lo ha fatto per disfarsi di beni inutilizzati. Inoltre, il 19,8% di quanti hanno fatto ricorso ai “compro-oro” lo ha fatto per far fronte alle spese mediche e il20,3%, invece, per saldare i debiti. Infine, il 15,8% degli intervistati ha venduto beni/oggetti su canali online di compravendita (es. e-Bay) e il 10,1% ha preso soldi in prestito da privati (non parenti/amici) non potendo accedere a prestiti bancari.

Gli italiani e il lavoro. Se tutti gli indicatori evidenziano un aumento della disoccupazione, dando uno sguardo alle condizioni di chi invece lavora il quadro che emerge è tutt’altro che incoraggiante. Il 74,3% dei lavoratori italiani è stressato, il 14,2% è stato vittima di mobbing, il 75,6% non si sente sicuro del proprio posto, il 63,4% non può fare progetti per il futuro, il36,3% si trasferirebbe all’estero per cercare opportunità lavorative.

 

«Ai successi del nostro export – prosegue il Presidente dell’Eurispes – e di alcuni dei settori strategici, corrispondono una forte depressione del mercato interno con un progressivo aumento della disoccupazione, una diminuzione sempre più marcata dei consumi e una sfiducia generalizzata sulle prospettive dell’economia.

All’interno di un quadro così contradditorio e complesso, occorre riportare al centro dell’interesse e dell’azione politica e amministrativa la grande questione dei ceti medi, ossatura stessa del nostro Paese, che stanno pagando il prezzo più alto della crisi.

Se, come tutti affermano, il nodo centrale è quello di far ripartire la crescita e rianimare i consumi interni, dobbiamo avere la consapevolezza che ciò potrà avvenire solo attraverso una coraggiosa operazione di redistribuzione della ricchezza.

La società dei tre terzi rappresenta oggi la reale condizione economica e sociale del nostro Paese: 1/3 di garantiti in grado di affrontare e superare ogni possibile crisi; 1/3 di poveri, che secondo i teorici della “società affluente”, dovevano essere emancipati dalla loro condizione di disagio e invece sono diventati sempre più poveri; 1/3 a rischio di povertà – e qui sta la novità – formato dai ceti medi scivolati verso il basso in termini di reddito, di opportunità e di ruolo sociale. I risultati di questa trasformazione sul piano economico, sociale e politico sono davanti agli occhi di tutti. E di fronte a questa verità non si può più sfuggire. Siamo insomma di fronte ad un’Italia che arranca, ad una società “defluente”. I ceti medi rappresentano una delle questioni fondamentali per il futuro della società italiana. Il loro indebolimento o la loro scomparsa segnerebbero di conseguenza nel migliore dei casi la riduzione degli spazi di democrazia, o la sua eclissi nel peggiore. Noi stessi, che avevamo parlato negli anni scorsi di “progressiva proletarizzazione dei ceti medi” ci sentiamo in obbligo di correggere il tiro e definire quella di oggi una “progressiva pauperizzazione”, versione ancora più pericolosa ove si consideri che proletario è colui che presta la propria opera di salariato a favore di un’impresa. La pauperizzazione è l’impoverimento tout court. Per il momento, ma solo per il momento, il disagio profondo del ceto medio si manifesta attraverso la sfiducia e l’allontanamento dalle Istituzioni».

 

Cittadini e Istituzioni sempre più lontani. La tradizionale rilevazione dell’Eurispes conferma lo scollamento tra i cittadini e le Istituzioni: in sette casi su dieci (70,6%) gli italiani indicano che la propria fiducia ha subìto una diminuzione. Un risultato in lieve calo rispetto allo scorso anno (-3%) che però non si scosta della tendenza negativa che si è innescata a partire dal 2006 e che ha visto il proprio picco negli ultimi quattro anni. In parallelo, il numero di quanti accordano alle Istituzioni un aumento di fiducia si assottiglia ulteriormente passando dal 5,3% del 2013 al 3,1% del 2014. Come nella precedente rilevazione, si registra un numero più elevato di sfiduciati tra gli over65 (77,5%) e, allo stesso tempo, un aumento del dissenso tra i 18-24enni (74,3%; nel 2013 erano il 66,9%).

Mezza Italia senza orientamento politico. Osservando nella sua totalità il campione intervistato, quanti non si riconoscono in nessuna area politica sono il 36,1%; a questi si aggiungono quanti non hanno saputo o non hanno voluto indicare quale sia la propria area politica di riferimento (12,4%). Quasi la metà del Paese quindi non sembra non avere un chiaro orientamento politico e non si sente rappresentata dai diversi schieramenti.

Si salvano Quirinale e Magistratura, ma senza raggiungere il 50% dei consensi. In linea con l’indagine dello scorso anno, in nessun caso il numero dei cittadini che affermano di riporre la propria fiducia nelle principali Istituzioni prese in considerazione singolarmente arriva a raccogliere la metà del campione, mantenendosi al di sotto del 45%. Si salvano con fatica, e mantenendo i risultati dell’anno precedente, il Presidente della Repubblica e la Magistratura. Ai margini del consenso si attestano invece il Governo, che raccoglie solo il16% dei fiduciosi, e il Parlamento, che, seppure in crescita rispetto a una fiducia ai minimi storici registrata nel 2013 (9%), non riesce ad andare oltre al 16% dei consensi.

La figura del Presidente della Repubblica che ha raccolto un calo della fiducia negli ultimi anni passando dal buon risultato del 62,1% del 2012 al 44,7% del 2013, quest’anno rimane “al palo” con il 44,2% dei consensi. Ancora più in una situazione di stallo è il giudizio dei cittadini nei confronti della Magistratura, che da un anno all’altro non vede spostarsi né verso l’alto né verso il basso il numero dei consensi e neppure quello degli sfiduciati; gli estimatori del lavoro dei magistrati non arrivano alla metà del campione (41,4%), mentre il grado di sfiducia è al 54,8%.

Le Forze dell’Ordine restano un punto fermo. È soprattutto l’Arma dei Carabinieri, sebbene si trovi di fronte ad un calo del numero di quanti accordano la propria fiducia del 6,4% rispetto allo scorso anno, a mantenersi salda in questa classifica, confermandosi il più importante riferimento istituzionale per gli italiani (69,9%). Anche la Polizia di Stato ha subìto quest’anno un calo di consensi che ha arrestato il trend positivo e gradualmente in risalita che ne aveva caratterizzato i risultati ottenuti a partire dal 2008. Si passa dal 75% dei consensi nel 2013 al 61,8% del 2014 con una perdita del 13,2%. Un discorso analogo può essere fatto per la Guardia di Finanza passata dal 71% al 58,8% dei gradimenti con uno scarto del 12,2%. Anche la Forestale risente del calo generalizzato e perde ben 14,5 punti percentuali (62,6%). In lieve diminuzione rispetto all’ultimo dato rilevato (2010) l’esito ottenuto quest’anno dalla Polizia penitenziaria che passa dal 50,7% al 45,6% dei consensi. Nonostante il segno negativo, il confronto col 2008 (39,2%) traccia comunque per la Penitenziaria un miglioramento in termini di consenso.

La nostra DifesaIl consenso espresso dagli intervistati nei confronti delle Forze Armate è in tutti i casi più ampio della metà del campione, ma è la Marina Militare ad esprimere il risultato migliore. Quasi sette italiani su dieci, il 67,7%, fanno affidamento sulla Marina. Di poco inferiore è invece la manifestazione di apprezzamento per l’Aeronautica Militare che si attesta al 65,2%. Infine, l’Esercito accoglie la fiducia di tre cittadini su cinque (59,3%).

Gli altri punti di riferimentoInsieme a quelli che rappresentano per gli italiani punti di riferimento istituzionali, l’indagine dell’Eurispes, come ogni anno, ha sondato anche il gradimento in relazione ad altre categorie, pubbliche e non, che possono essere inserite del novero delle Istituzioni. È possibile quindi delineare un aumento dei consensi e dell’apprezzamento dei cittadini nei confronti delle associazioni di imprenditori, che fanno segnare quest’anno il miglior risultato dal 2009 con il 39,1% di preferenze accordate quest’anno rispetto al 28,9% ottenuto nel 2013 (+10,2%). In salita anche la fiducia risposta nella Scuola che riesce ad oltrepassare il muro del 50% dei consensi attestandosi al 53,6%. Si ampliano anche i consensi nei confronti della Chiesa, che ottiene il 49% della fiducia degli intervistati (+12,4% rispetto al 2013), e delle altre confessioni religiose (dal 20,6% del 2013 al 23,1% del 2014). Sebbene abbia fatto registrare un lieve aumento da un anno all’altro, passando da un livello del gradimento del 17,6% nel 2013 al 21% del 2014, laPubblica amministrazione è tra le categorie di Istituzioni meno amate dai cittadini. In discesa nel novero dei consensi le Associazioni dei consumatori che perdono circa 7 punti percentuali scendendo al 56,6%. I partiti (6,5%), peggio dei sindacati (19,2%), sembrano non trovare speranza di accreditarsi presso l’opinione pubblica come referenti affidabili. Seguono anche quest’anno un trend lievemente discendente – iniziato dal 2011 quando erano passate dall’82,1% dei consensi al 79,9% – le Associazioni di volontariato. Se infatti nel 2012 avevano raccolto la fiducia del 77,4% dei cittadini e nel 2013 quella del 75,4%, quest’anno si attestano al 74,5%, rimanendo comunque amatissime.

Alla riscoperta della fede perdutaUna Chiesa più aperta e più vicina alla realtà di tutte quelle persone che in questo momento storico si trovano in condizione di disagio e sofferenza. È senza dubbio il dirompente “effetto Bergoglio” ad aver inciso quest’anno sull’aumento della fiducia degli italiani nei confronti della Chiesa cattolica. Un dato che porta la Chiesa al risultato migliore degli ultimi sei anni e le fa sfiorare la metà del totale dei consensi. Ma soprattutto, con un incremento di 12,4 punti percentuali in più rispetto allo scorso anno, lo stacco è profondo e di grande interesse. I livelli più alti di fiducia nella Chiesa si registrano non solo tra gli over65 (58,2%), che rappresentano tradizionalmente la classe d’età più vicina al sentimento religioso, ma anche tra quanti hanno un’età inferiore ossia i 45-64enni (56,1%) e i 35-44enni (49,1%). Ancora più interessante appare l’incrocio dei dati per stato civile: al di là dell’elevato numero di vedovi fiduciosi nella Chiesa (75,9%), esprimono un grado di fiducia ragguardevole i coniugati (non per forza con rito cattolico) con una percentuale del 55,6%, i divorziati (50,6%) e i conviventi (42,6%).

Il 75,2%, la maggioranza degli italiani, dichiara di essere un cattolico credente, ma è il33,1% ad essere praticante; mentre il 42,1%, pur credendo, non pratica attivamente. Gli atei o appartenenti ad un’altra religione sono il 19,9%.

Indipendentemente dal fatto di dichiararsi cattolici praticanti o no, il 28,8% dei cattolici partecipa alla celebrazione della Santa Messa tutte le domeniche, il 23% lo fa solo in occasione delle principali festività religiose, il 18,8% in occasione di battesimi, comunioni, cresime, matrimoni, funerali, il 14,2% una o due volte al mese, l’8% più volte alla settimana, il 4,6% non si reca mai in Chiesa.

Papa Francesco apprezzato dall’87% degli italiani. Papa Francesco ha già conquistato in meno di un anno l’affetto e i favori nella comunità cattolica, ma anche al di fuori di essa. Tra un pugno di indecisi (8,4%) e una manciata di scettici (4,5%) domina l’87,1% di chi sostiene che Papa Francesco stia ridando vitalità alla sua Chiesa.

 

«Tra i compiti urgenti che la politica dovrà affrontare, se vuole veramente riaffermare il suo primato – sottolinea il Presidente Fara –, vi è, da una parte, quello di sottrarsi alla subordinazione dalla amministrazione e dalla tecnica alla quale si è più o meno ridotta; e, dall’altra, cercare di ricostruire un rapporto corretto con l’opinione pubblica, attraverso una coerente “operazione verità” nel senso, cioè, di riuscire a far seguire alle parole i fatti. Il tema della menzogna nel rapporto tra politica e opinione pubblica ha profonde radici nella cultura del potere, del nostro Paese in particolare. Ne rappresenta un vero e proprio carattere distintivo e deriva dallo spirito feudale tipico della nostra classe dirigente che continua a considerare come sudditi i cittadini, ai quali vanno trasferiti ordini e disposizioni piuttosto che spiegazioni. D’altra parte, come la storia ci ricorda, mentre Churchill prometteva realisticamente agli inglesi “sangue, sudore e lacrime”, il nostro Mussolini rassicurava gli italiani col suo “vinceremo”.

Questa mentalità è il prodotto della convinzione della immaturità del popolo che “non sa”, e quindi non sarebbe in grado di valutare correttamente la complessità dei fenomeni e al quale va somministrato un distillato controllato di informazioni, o meglio, di propaganda.

Ma se almeno la propaganda riguardasse azioni, misure, iniziative portate a compimento vi sarebbe poco da ridire. Invece si imbastiscono pervasive campagne di comunicazione su semplici annunci, disorientando l’opinione pubblica. Il prodotto finale è una straordinaria confusione, il disorientamento totale di un cittadino al quale la vita viene resa ogni giorno più difficile e complicata.

Tra dichiarazioni e smentite è difficile persino fare il proprio dovere di contribuente. Riuscire a pagare una tassa o una contravvenzione senza doversi dannare l’anima diventa una vera e propria impresa. Le Istituzioni invece hanno il dovere di rendersi comprensibili e chiare a tutti i cittadini, soprattutto in un Paese come il nostro che non è mai riuscito a superare i mille dialetti e ad affermare il primato dell’italiano e combatte ancora con sacche vastissime di analfabetismo e analfabetismo di ritorno.

Altra caratteristica della prassi politica recente è quella della abolizione della coniugazione dei verbi al passato e al presente, e l’esaltazione di quelli al futuro: dovremo, faremo, costruiremo, risaneremo e via dicendo. La soluzione dei problemi, per quanto gravi e urgenti, viene sempre rinviata al futuro».

L’abolizione delle Province. L’indagine realizzata dell’Eurispes ha rilevato quest’anno un orientamento degli italiani ancora più netto per quanto riguarda l’abolizione delle Province: se i favorevoli erano nel 2011 il 46,6%, a tre anni di distanza si evidenzia un aumento significativo di quanti, oggi a larga maggioranza, approvano la riforma (61,5%).

Che cosa fare con le Regioni? A differenza del giudizio registrato per le Province, la maggioranza dei cittadini (59,3%) ha manifestato la propria contrarietà ad eliminare le Regioni, il 27,8% si è detto favorevole, mentre il 12,9% non si esprime al riguardo.

A chi imputare le responsabilità della crisi? Il 66,8% dei cittadini imputa le maggiori responsabilità alla classe dirigente; sembrerebbe quindi che gli italiani siano convinti che il Paese si trovi in questa difficilissima situazione principalmente in ragione del fatto che non ci sia nessuno in grado di gestirla. Solo residualmente vengono riconosciute colpe o responsabilità in capo a soggetti/dinamiche extranazionali; appena il 16% degli italiani, infatti, attribuisce l’origine della crisi a manovre speculative della grande finanzainternazionale e il 7,5% imputa l’attuale congiuntura negativa ai vincoli imposti dall’Europa e all’egoismo delle singole nazioni. Infine il 5% indica lo strapotere economico della Germania quale fattore che ha influenzato l’affermarsi della congiuntura economica sfavorevole.

Il sogno europeo e la moneta unica. Esistono posizioni diametralmente opposte, fra chi ritiene che l’Unione sia ancora giovane e che per funzionare in modo effettivo ed efficiente abbia bisogno di maggiore impegno da parte dei paesi che ne fanno parte (62,5%), e chi, al contrario, ritiene eccessivo, il supporto offerto dall’Italia all’Ue (24,1%). Orientamenti, questi, che possono facilmente trovare più di qualche corrispondenza in chi auspica la fuoriuscita dall’euro (25,7%) o in chi ne sostiene la permanenza (64,4%).

«A dodici anni di distanza dall’introduzione della moneta unica – spiega Gian Maria Fara – , il bilancio non può che considerarsi nel complesso negativo: l’euro, più che un punto d’appoggio, è diventato una vera e propria camicia di forza. Basti osservare gli effetti che ha prodotto sulla crescita economica dei paesi dell’Unione europea. L’Italia è stata sottoposta a quella che, parafrasando una recente teoria, potremmo definire una “decrescita infelice”. Tutti gli indicatori economici e sociali registrano una forte sofferenza.

Abbiamo preteso di realizzare un’unione valutaria tra economie diverse, che tali in questi dodici anni sono rimaste.

Per la prima volta nella storia si è tentato di affermare la possibilità di una “moneta senza Stato” e il sistema mostra ormai evidenti segni di scomposizione. Ci eravamo forse illusi che la costruzione dell’Unione potesse rappresentare il superamento di antiche divisioni tra Stati, tra culture, tra economie. Purtroppo non è così. Gli egoismi nazionali non solo sono sopravvissuti, ma si sono rafforzati e nascosti dietro una maschera bonaria e amichevole.

Il libero mercato è tale quando si tratta di far man bassa dei nostri migliori brand e delle nostre aziende più appetitose, ma non lo è quando si toccano gli asset nazionali che i nostri amici europei considerano strategici.  In più veniamo bistrattati e costretti a fare i compiti a casa anche se siamo tra i primi finanziatori dell’Unione e spesso ci comportiamo come il parvenu disposto a pagare qualsiasi prezzo pur di essere accolto nel “salotto buono”.

Se vogliamo stare in Europa dobbiamo starci da protagonisti e non da comparse. E ciò dipende in larga misura dalla nostra capacità di rispondere alle sfide internazionali. Dobbiamo recuperare credibilità e ruolo in Europa e nel mondo.

E dobbiamo renderci conto – secondo il Presidente dell’Eurispes – che le dinamiche della nuova competizione internazionale non sono compatibili con una cultura della conservazione, con la paralisi decisionale, con le pretese corporative di intollerabili privilegi, con la mancanza di una visione strategica che metta a frutto le vere potenzialità del Paese.

Allora, l’unica strada percorribile appare quella indicata da Helmut Schmidt, l’ex cancelliere socialdemocratico tedesco, quando auspica un nuovo europeismo fondato su una nuova razionalità europea, costruita su obiettivi raggiungibili».

 

Magistrati: fiducia dei cittadini e condizionamento politico. La maggioranza dei cittadini ammette l’esistenza di un condizionamento delle idee politiche dei magistrati nel loro operato: il 41,6% lo riconosce per l’intera categoria, mentre il 33,6% soltanto per alcuni magistrati. Solo il 20,2% ritiene che i magistrati non siano influenzati politicamente.

Chi sbaglia paga? La larga parte dei cittadini ritiene necessario introdurre nel nostro ordinamento una legge sulla responsabilità civile dei magistrati. La pensa in questo modo il 65,2% a fronte del solo 18,3% che si dichiara contrario.

L’abolizione della legge Bossi-Fini e la conseguente riformulazione di una legge sull’immigrazione insieme alla revisione della legge elettorale rappresentano delle emergenze non più rinviabili per l’opinione pubblica (71,9% e 83,4%).

Leggi svuota carceri? No all’amnistia e all’indulto. Se una nuova legge sull’immigrazione trova un accordo diffuso tra i cittadini, si rileva invece un alto numero di contrari a proposte di interventi di riforma in tema di amnistia (77,3% contro il 20,7% dei favorevoli) e indulto (71,8% contro il 26,1% dei favorevoli).

Legalizzazioni: sì alla prostituzione, no alle droghe leggere. La legalizzazione della prostituzione accoglie il consenso del 54,5% dei cittadini, mentre i contrari sono il 43,8%. In maniera simile ma inversa, riguardo alla possibilità di introdurre una norma che legalizzi le droghe leggere i favorevoli non superano la metà degli intervistati (40,3%) mentre i contrari rappresentano la maggioranza (58,1%).

Questioni di etica… Anche quest’anno l’Eurispes ha voluto cogliere atteggiamenti, opinioni e mutamenti culturali dei cittadini rispetto ad una serie di temi etici di particolare attualità. La grandissima maggioranza (89,5%) è favorevole all’utilizzo delle staminali per le cure mediche. Altrettanto numerosi (84%) sono i favorevoli all’introduzione del divorzio breve. Il78,6% si dice a favore dell’introduzione anche in Italia della tutela giuridica delle coppie di fatto. Netta maggioranza di favorevoli anche per la fecondazione assistita (75,9%; era il 79,4% un anno fa) e per il testamento biologico (71,7%; era il 77,3% nel 2013), che consente di lasciare le disposizioni in merito alle terapie che si intende accettare o meno nel caso in cui si perdesse la capacità di esprimere la propria volontà. Prevalgono anche i favorevoli (63,5%) alla pillola abortiva. I favorevoli all’eutanasia sono la maggioranza (58,9%), anche se rispetto al 2013 (64,6%) i favorevoli sono in calo del 5,7%.

Sebbene il consenso sul riconoscimento di garanzie e diritti alle unioni civili sia largamente condiviso, il Paese si spacca sull’opportunità di consentire un vero e proprio matrimonio tra persone dello stesso sesso (i contrari sono il 50,8% contro il 47,7% di favorevoli). In pochi inoltre sostengono la possibilità di adottare bambini anche per le coppie omosessuali (28,8%). Lo accetterebbe più di una persona su 4, ma forse proprio perché la materia coinvolge i bambini ed è per questo particolarmente delicata, in Italia continuano a prevalere le resistenze, le perplessità e i timori. Risultati analoghi si riscontrano per la legalizzazione del suicidio assistito (28,6%; nel 2013 i favorevoli erano il 36,2%).

 

Secondo il Presidente dell’Eurispes: «La politica sembra dar segni di ringiovanimento, almeno anagrafico, e i nuovi protagonisti, oltre che poter dire “io non c’ero” per il passato, non avranno alibi e giustificazioni per ciò che faranno nell’immediato futuro.

Ma non andremo da nessuna parte se non sosterremo le nostre imprese manifatturiere, assicurando loro i servizi e il credito necessari a favorirne la proiezione internazionale, e se non le libereremo dai mille vincoli e dal peso di una burocrazia soffocante e di una tassazione opprimente. Non andremo da nessuna parte se non cominceremo a pensare al turismo come un asse portante dello sviluppo. Se non ammoderneremo e non metteremo in rete le nostre strutture ricettive e dispiegheremo a livello internazionale adeguate campagne di promozione e di marketing. Superando, quindi, la ridicola frammentazione che consente a regioni e città di sperperare risorse enormi per improbabili singole campagne di comunicazione o di aprire inutili sedi in giro per il mondo.

Non andremo da nessuna parte se non capiremo che con la “cultura si mangia”, eccome. Mentre addolora sapere che il Louvre ha, da solo, più visitatori di tutti i musei italiani messi insieme, come sapere il numero impressionante delle opere di raro valore relegate negli scantinati per l’assenza degli spazi espositivi necessari ad accoglierle. Il budget della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma è di 1,3 milioni di euro, quello della Biblioteca Nacional de España di 52 mln, quello della British Library di 120 mln e quello della Biblioteca Nazionale di Francia di 230 mln.

Non andremo da nessuna parte se non difenderemo la nostra agricoltura e le nostre produzioni agroalimentari dalla interessata ottusità degli uffici comunitari, che ostacolano la tutela delle nostre produzioni e se non combatteremo l’Italian sounding e le agromafie che stanno silenziosamente ingoiando pezzi interi della nostra economia. Non andremo da nessuna parte se penseremo di fare cassa con gli ultimi gioielli di famiglia e ci riferiamo a Eni, Finmeccanica, Enel (che dovrebbero essere considerati monumenti nazionali). E, infine, non andremo da nessuna parte se non avremo il coraggio di ammettere che la riforma del Titolo V della nostra Costituzione è stata un gravissimo errore e se non riporteremo sotto controllo la follia delle Regioni.

Recentemente, il Presidente della Confindustria, Squinzi, ha affermato che la nostra economia è come se fosse uscita da una vera e propria guerra mondiale. Bene. E allora regoliamoci di conseguenza e cerchiamo di rifare quello che i nostri padri hanno saputo fare negli anni Cinquanta e Sessanta, ricostruendo un Paese distrutto. Per fare ciò, occorre recuperare anche il senso di coesione, della comunità e dello Stato che animò quegli uomini, abbandonando il populismo, il qualunquismo e la demagogia che spesso inducono in comportamenti al limite del ridicolo nella ricerca di un facile e momentaneo consenso. Quando le Istituzioni si acconciano a queste derive, lo Stato perde di autorità, di autorevolezza e di credibilità. Ma dev’essere chiaro che occorre ricostruire non solo materialmente ma anche moralmente l’Italia attraverso la ripresa di una seria ricerca etica che ci impegni tutti nella riflessione su ciò che è bene e ciò che è male, su ciò che è giusto e su ciò che è ingiusto, su ciò che è bello e su ciò che è brutto.

Ma, soprattutto, dobbiamo liberarci dal nichilismo e dal pessimismo che distruggono il futuro. E, come diceva Antonio Gramsci, dobbiamo concentrare l’attenzione nel presente così come è. Se si vuole trasformarlo».

 

Costume e Società

Come ogni anni l’Eurispes affronta tra i diversi temi anche i fenomeni e le questioni legate ai cambiamenti sociali e al costume degli italiani. In questa edizione del Rapporto Italia l’attenzione si è focalizzata in particolare sul rapporto tra uomini e mondo animale, anche attraverso l’indagine presso i veterinari condotta in collaborazione con Fnovi, la pratica sportiva e la passione degli italiani per il calcio, la propensione a tentare la fortuna giocando.

Quattro italiani su 10 vivono con un animale. Il 39,4% degli italiani ha almeno un animale in casa, mentre il 60,6% non ne possiede. In particolare, il 27,5% ha accolto in casa propria un animale e l’11,9% più di uno. I dati relativi alla presenza di almeno un animale in casa sono in diminuzione (55,3% nel 2013). Si tratta di uno scostamento dei dati interessante che potrebbe essere letto alla luce della crisi economica o del moltiplicarsi degli impegni quotidiani troppo gravosi per permettersi il lusso di accudire un animale domestico. Potrebbero avere avuto effetto anche le tante campagne, come quelle sostenute dalla Lav, che sensibilizzano l’opinione pubblica a prendere in seria considerazione i bisogni degli animali prima di decidere se adottarne o meno uno. D’altronde, la diminuzione del numero di quanti nell’indagine di quest’anno dichiarano di avere in casa un animale non è tale da indicare una drastica inversione di tendenza. per capire effettivamente se si sia innescato un trend discendente nel rapporto tra italiani e animali d'affezione, occorrerà osservare l'andamento dei risultati della prossima rilevazione.

Il migliore amico dell’uomo occupa la testa della classifica degli animali che si possono trovare nelle case degli italiani, infatti il è 53,7% ad avere almeno un “Fido” in famiglia. Segue nella lista degli animali preferiti come compagnia domestica il gatto (45,8%).

Quanto ci costano i nostri amici? La metà di chi ha un animale (52,1%) spende in media meno di 30 euro al mese per il suo fabbisogno nutrizionale, igienico e sanitario, il 32,8% fino a 50 euro mensili, mentre la restante parte si divide tra il 10,9% di quanti spendono una cifra che va dai 51 ai 100 euro, il 2,1% di chi spende da 101 a 200 euro, l’1,4% di coloro che spendono un importo compreso tra 201 e 300 euro e un’esigua minoranza, lo 0,2%, che non bada a spese, andando oltre i 300 euro al mese.

Per il cibo può bastare 1 euro al giorno. Più della metà di chi ha un animale domestico (55,1%) afferma di riuscire a nutrirlo con meno di 30 euro al mese, mentre il 29,8% spende da 31 a 50 euro, il 10,9% da 51 a 100 euro, il 2,6% da 101 a 200 euro.

La salute: le visite dal veterinario. La maggior parte dei padroni (il 69,1%) spende per visite dal veterinario ed eventuali medicine una cifra contenuta entro i 100 euro l’anno. Circa un quinto (18,8%) spende dai 101 ai 200 euro, mentre si assottiglia la quota di quanti mettono mano al portafogli in maniera più consistente: il 6,7% spende dai 201 ai 300 euro e il 2,6%oltre 300 euro l’anno.

Il sondaggio effettuato in collaborazione con la Federazione Nazionale Veterinari (Fnovi).L’Eurispes quest’anno ha deciso di ampliare il suo raggio d’indagine sul tema animali dando voce anche ai veterinari. L’indagine è stata realizzata col prezioso contributo della Federazione Nazionale Ordine Veterinari Italiani (Fnovi) che ha coinvolto i propri associati nella compilazione del questionario.

L’82,8% dei veterinari riscontra spesso una cura adeguata degli animali, il 2,2% sempre, mentre un 14,8% si dimostra più critico rispondendo “raramente”. La crisi colpisce pesantemente anche i nostri piccoli amici: la larga maggioranza del campione riferisce che i proprietari di animali hanno ridotto le spese veterinarie, per il 52,1% abbastanza, per il34,7% (oltre un terzo) addirittura molto. Solo il 12,9% parla di una lieve riduzione.

Meno controlli e interventi chirurgici. Tra le diverse voci relative alle spese veterinarie quelle su cui, secondo i veterinari, sono stati fatti più tagli sono le cure e gli interventi chirurgici costosi (49,3%) e i controlli medici periodici (48%); solo il 2,7% parla dei medicinali.

Per colpa della crisi crescono gli affidi. Un’altra conferma della difficoltà della situazione del Paese arriva dal fatto che per quasi la metà dei veterinari (48,2%) sono aumentati negli ultimi anni i clienti che chiedono il loro aiuto per affidare ad altri i propri animali, non riuscendo a sostenere le spese per mantenerli. Per il 50,2% sono rimasti stabili, solo per l’1,6% sono diminuiti.

Diminuisce anche la propensione ad adottare. Il 47,2% dei veterinari dichiara che la disponibilità dei clienti ad adottare animali, rispetto a qualche anno fa, è rimasta stabile, ma un rilevante 44,3% sostiene che è diminuita; solo per l’8,5% è invece aumentata.

L’abbandono degli animali. Più della metà dei veterinari (59,5%) afferma che il numero di animali feriti o in difficoltà in seguito ad abbandono portati nel suo ambulatorio è sostanzialmente stabile rispetto al passato. È però degno di nota il fatto che un veterinario su 4 (25,7%) abbia notato un aumento degli abbandoni rispetto a qualche anno fa; il 14,8% parla invece di una diminuzione.

La cura degli animali selvatici in difficoltà. Alla maggioranza dei veterinari (66,3%) è capitato di ricevere in ambulatorio un animale selvatico in difficoltà. Sono soprattutto i privati cittadini a portare gli animali selvatici in difficoltà dai veterinari (57,3%). Al 13% dei veterinari sono stati portati animali selvatici dalle Forze dell’ordine, al 10,1% da Associazioni di volontariato (LAV, Legambiente, ecc.). Gli animali selvatici portati con maggior frequenza negli ambulatori veterinari sono i volatili (è capitato di occuparsene al 52,5% dei veterinari), seguiti dai mammiferi (37%) e dai rettili (8,3%).

I veterinari e gli animali maltrattati. Alla maggioranza dei veterinari (1,4% spesso, 22,5%qualche volta e 51,7% raramente) è capitato di curare animali maltrattati.

L’anagrafe canina. A quasi tutti i veterinari è capitato di visitare cani privi di microchip o non iscritti all’anagrafe canina (solo al 9,2% non è mai successo). Per la maggioranza dei soggetti (69%) ciò accade qualche volta, per il 21,3% spesso.

In aumento le richieste di eutanasia. Il 40,1% dei veterinari afferma che nel corso dell’ultimo anno sono aumentate le richieste di eutanasia a seguito di diagnosi di malattia cronica/non curabile.

Il popolo dei vegetariani e dei vegani, tra sensibilità animalista e cura della salute. Il 6,5% degli intervistati è vegetariano, lo 0,6% vegano, per un totale del 7,1%. Nella precedente rilevazione i vegetariani si fermavano al 4,9%, per una quota complessiva che, con l’1,1% dei vegani, si attestava al 6%. Quasi un terzo (31%) dei vegetariani e vegani ha scelto questo tipo di alimentazione per rispetto nei confronti degli animali, un quarto (24%) perché fa bene alla salute. Un altro 9% afferma di farlo per tutelare l’ambiente.

Un’etica…“bestiale”. Sul tema della vivisezione, sempre al centro di accesissimi dibattiti, la netta maggioranza degli italiani (81,6%) si dice contraria a tale pratica; i favorevoli risultano solo il 16%. Allo stesso modo l’85,5% è compatto nel dichiararsi contrario all’utilizzo di animali per la produzione di pellicce; solo il 12,9% è a favore.

Anche per quanto riguarda la caccia il numero di contrari raggiunge livelli elevati (74,3%), rispetto a quanti invece si dichiarano favorevoli (meno di un italiano su 4, il 24,4%, anche se in aumento dalla precedente rilevazione del 4,5%). Un terzo (33,3%) degli italiani è favorevole all’utilizzo degli animali nei circhi, ma la maggior parte, il 65%, è contrario. Appena più della metà del campione è favorevole all’esistenza degli zoo (56,2%, contro il 42,2% dei contrari) e dei delfinari (54,5% vs 43,8). La possibilità di accesso degli animali da compagnia nei luoghi pubblici (64,9%) e nelle strutture alberghiere (60,3%) raccoglie oltre la metà dei consensi.

Infine, la maggioranza degli italiani (51,9%, contro il 43,9% dei contrari) si dice favorevole ad una recente proposta di legge che intende equiparare gli equidi (cavalli, asini, ecc.) agli animali da affezione e impedirne la macellazione.

Gli italiani e il gioco. Per la maggioranza degli intervistati del campione dell’indagine Eurispes di quest’anno che hanno riferito di praticarlo il gioco è puro e semplice divertimento (34,5%); mentre per il 12,1% è l’occasione per cercare momenti di emozione.

Il motivo principale che spinge al gioco è evidentemente la speranza o l’attesa di poter ottenere una vincita in denaro: è così per quasi la metà delle persone che giocano, dal momento che il 32,7% è interessato al gioco per ottenere una grossa vincita e il 15,6%punta a beneficiare di risorse economiche in modo più facile.

Il Gratta e Vinci resta il più amato dagli italiani. Il Gratta e vinci è il gioco preferito dagli italiani: il 31,8% ci gioca almeno una volta all’anno, qualche volta al mese il 21,3% e spesso il 10,5%, con un 3,9% che gioca anche più di una volta alla settimana. A seguire, si posiziona il gioco del Lotto: il 26% compila la schedina una volta all’anno, il 16,7% una volta al mese e il 10,9% una volta alla settimana. Sulla stessa linea, anche per le affinità che li accomunano, il SuperEnalotto (21,3% una volta al mese; 19,8% una volta all’anno; 10% spesso; 3,9% anche più volte nella stessa settimana). Meno interesse riscuoto i concorsi a pronostico come il Totocalcio e il Totogol, non amati dal 70,9% e lescommesse sportive (il 68% non giocare mai, il 10,5% una volta all’anno). Per quanto riguarda le Slot, il 25,2% è un frequentatore abituale o ci ha giocato almeno una volta.

Quanto rischiano gli italiani? Interrogati su questo aspetto, i giocatori hanno indicato il più delle volte una spesa compresa tra 1 e 10 euro. In particolare, è così per il 37,6% degli appassionati del Gratta e vinci, per il 35,7% di chi si cimenta con il SuperEnalotto e per il 34,5% dei giocatori del Lotto; infine, è la spesa indicata dal 31,4% di coloro che giocano alle lotterie tradizionali. Nel caso dei giochi Gratta e vinci, del Lotto e del SuperEnalotto vi sono alcuni giocatori (rispettivamente il 20,2%, il 12,8% e il 14,3%) che dichiarano di spendere tra gli 11 e i 20 euro settimanali.

Quando il gioco si fa troppo duro. Ad aver perso moti soldi al gioco sono il 10,1% degli intervistati con una prevalenza degli uomini rispetto alle donne (12,8% vs 6,5%). In generale, se il 72,1% degli intervistati dichiara di non aver mai chiesto denaro in prestito per il gioco, il 18,2% lo ha fatto qualche volta e il 4,7% quasi mai.

Ludopatie in agguato. Quando da divertimento il gioco diventa un serio problema, difficilmente si ricorre all’aiuto di personale specializzato. I risultati mettono in luce che nella maggior parte dei casi (52,9%) si sceglie ancora di affrontare in maniera empirica autonomamente l’insorgere di una ludopatia.

Le sale slot. Il 30,3% degli intervistati dichiara di conoscere persone che frequentano le sale Slot. Il 26,4% conosce persone che si sono indebitate per giocare alle Slot.

 

Solo un italiano su tre pratica sport. Per applicare la massima di Giovenale “Mens sana in corpore sano” occorre un grosso sforzo di volontà che solo un italiano su tre ha deciso di compiere: appena il 34,3% pratica regolarmente attività fisica o uno sport.

Fare sport costa. Gli italiani più “sportivi” sono quelli che abitano tra Lombardia, Liguria, Piemonte e Val d’Aosta (41,9%). E probabilmente non è un caso che chi vive nel Nord-Ovest, l’area più benestante dell’Italia, riesce a esercitare con più assiduità pratiche sportive; allo stesso modo, è il Sud, zona geografica più svantaggiata dal punto di vista economico, l’area dove si è meno impegnati a livello fisico: appena il 28,5%. Il 35,4% di chi non rinuncia a mantenersi in forma non va oltre, per farlo, i 50 euro mensili, mentre il 24,9% arriva a spendere fino a 100 euro. Chi può permettersi di spendere di più lo fa, ma le percentuali si abbassano sensibilmente.

In forma a “costo 0”. Decisamente interessante il numero di sportivi che si tengono in forma “a costo zero”: ben il 18,9%, infatti, pratica sport in casa, magari seguendo programmi ad hoc trasmessi da numerose Tv private, o dopo aver “riesumato” dalla soffitta una vecchia cyclette.

 

Milioni di tifosi, ma lontano dagli stadi. Si dice che siamo un Paese con 60 milioni di commissari tecnici. Eppure i tifosi italiani non fanno follie per i propri colori. Ben il 77%, più di tre tifosi su quattro, ammette di non spendere niente per acquistare gadget della propria squadra. Un dato che in Italia va decisamente in controtendenza rispetto a quanto avviene all’estero dove il merchandising rappresenta una delle voci in entrata maggiori dei club di calcio. Appena il 14% dei tifosi ammette di spendere circa 50 euro al mese e solo l’1,5% tra i 50 e i 150 euro al mese.

Un tifoso su tre, il 32,5%, segue la propria squadra del cuore utilizzando la pay per view.Infatti, il 25,2%, un tifoso su quattro, spende fino a 50 euro al mese per seguire il calcio in Tv, il 6% arriva a spendere fino a 150 euro al mese e l’1,3% va oltre questa cifra fino ad arrivare anche a 300 euro.

Stadi vuoti. Il 56,9% degli italiani ammette di non spendere nulla per l’acquisto di un biglietto. Un tifoso su quattro, il 25,6%, spende fino a 50 euro al mese, mentre il restante9,4% compra biglietti spendendo fino a 150 euro mensili (7,8%) e fino a 300 euro (1,6

Poco più di un tifoso su quattro, il 27,3%, è solito sostenere i propri colori anche lontano da casa. Per farlo il 12,7% di questi spende in media circa 50 euro ogni mese, l’11,1% fino a 150 euro, il 2,4% fino a 300 euro.

Ma con chi si va generalmente allo stadio? Questa domanda è stata posta, dando la possibilità di fornire più di una risposta, a chi si professa tifoso. E il risultato certamente più sorprendente è che il 20,2% dei tifosi ammette di non aver mai frequentato uno stadio. La stragrande maggioranza di chi tifa per una squadra di calcio, invece, va allo stadio in compagnia di amici (59,7%), più raramente da soli (20,6%). Non manca chi (19,5%), quasi un tifoso su cinque, va allo stadio in compagnia della famiglia, mentre solo il 5,8% dei tifosi segue dal vivo gli incontri di calcio con i gruppi organizzati. Il 60,7% vede lo stadio come un posto pericoloso dove è meglio non portare i bambini: troppo grande il rischio di scontri tra le diverse tifoserie. Il 20,7% di contro, crede che ormai lo stadio sia un ruolo sicuro, anche grazie alle recenti normative e alla presenza massiccia delle Forze dell’ordine. Prevalgono dunque la paura e l’insicurezza su ciò che può avvenire sugli spalti prima, durante e dopo la gara. Uomini e donne la pensano pressappoco alla stessa maniera: il 61,2% degli uomini e il 59,8% delle donne preferiscono non portare i bambini allo stadio poiché considerato luogo troppo pericoloso.

 

Categoria: